Italiani dovete morire by Alfio Caruso

Italiani dovete morire by Alfio Caruso

autore:Alfio Caruso [Caruso, Alfio]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Neri Pozza
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00


Espletate le ultime formalità, viene formato il convoglio che condurrà lo stato maggiore della divisione verso la prigionia. In testa la vettura con i tedeschi e Tomasi, dietro Gandin, Fioretti, l’aiutante di campo, capitano Carocci, a seguire altre auto, motocarrozzette, camion, un’ambulanza sulla quale hanno preso posto il tenente colonnello medico Briganti, responsabile sanitario di Cefalonia, il comandante del genio, maggiore Filippini, il suo aiutante maggiore, tenente Fraticelli. Chiude una jeep tedesca armata di mitragliatrice. I fanti vanno a piedi, guidati dal tenente dei carabinieri Alfredo Santulli. La distanza da percorrere è breve, la confusione e la ressa della notte precedente sono sparite. Lungo la rotabile s’incontrano le compagnie del III/98° impegnate nel rastrellamento. Sul ciglio della strada, ritto e impettito dentro la carrozzina di un sidecar, il maggiore Klebe filma la mesta processione dei prigionieri. Con il suo battaglione proseguirà fino a capo Munta per giustiziare i diciannove genieri giunti da Zacinto.

A Spilea un posto di blocco impone una sosta. Briganti, Filippini, Fraticelli scendono dall’ambulanza senza essere notati, si dileguano, raggiungono il vicino 37° ospedale da campo. Briganti fa ricoverare i due ufficiali. Per sottrarli alla rappresaglia germanica sono stati condotti qui anche il capitano Mastrangelo e il responsabile dell’ufficio censura, l’anziano capitano Francesco Castellano.

I tedeschi continuano nella caccia spietata a artiglieri e marinai. Le strade e i campi nelle vicinanze di Argostoli sono punteggiati dai baschi di panno blu e dai maglioni di lana blu della marina, dai cappelli di alpino con i due cannoni incrociati, ma senza l’aquila del 33°, dagli elmetti dell’artiglieria divisionale. Il comando germanico ha messo una taglia di 5000 marchi sulla testa di Pampaloni, di Apollonio, di Longoni, indicato come «l’ufficiale della moto rossa». Pampaloni è ospite in casa di un prete ortodosso, gli hanno disinfettato la ferita sul collo con la grappa e l’hanno curata con erbe medicinali. Il capitano viene dissuaso dal recarsi in un ospedale italiano, rimarrà in quella casa fino al giorno in cui i partigiani non lo preleveranno per condurlo dapprima in montagna, poi sulla penisola. Apollonio è stato catturato ad Argostoli e condotto alla caserma Vittorio Emanuele, dov’è detenuto gran parte del contingente italiano. I suoi carcerieri per fortuna ignorano chi sia, anzi lo usano come interprete per interrogare gli altri ufficiali. A sera un sottufficiale austriaco li tranquillizza: «Le intelligenze sono rientrate nelle intelligenze. Tutto è ritornato nella normalità. Ormai non c’è più nulla da temere». Nella stessa caserma, confuso tra i soldati, si nasconde Longoni. L’hanno preso mentre accompagnava alcuni feriti al 527° ospedale da campo. Gli austriaci erano intenzionati ad accopparlo subito, è sopraggiunto un sottufficiale che si è innamorato della Guzzi, ha chiesto a Longoni se era sua, c’è balzato sopra, prima di allontanarsi ha fatto segno di condurlo alla caserma. Lungo il tragitto Longoni ha strappato le stellette dalla camicia, ha assunto l’identità di un defunto, il sergente Angelo Gazzoli. È un trucco impiegato anche da Trivellin divenuto Guido Bertellini. I tedeschi sospettano che tra quelle centinaia di prigionieri possano celarsi alcuni ufficiali.



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